2 gennaio 2011
Nel suk dei nativi digitali. Perché gli studenti 2.0 hanno bisogno di una bussola per orientarsi
di Serena Danna
Addio al vecchio sapere lineare fondato sulla parola scritta e sulla trasmissione di conoscenza maestro-alunno: imparare oggi ha la forma di un suk arabo nell'ora di punta. Tra social network, video-racconti su YouTube, la musica di MySpace, il linguaggio sincopato delle chat e le bufale online, gli studenti di nuova generazione hanno bisogno di una bussola per orientarsi. Ma la scuola non c'è. O meglio, non ce la fa: a studenti 2.0 corrispondono spesso istituti scolastici da secolo scorso.
Chi sono questi famigerati "nativi digitali" nati e cresciuti a rivoluzione Internet compiuta? Come ha scritto l'ex direttore del programma Comparative media studies dell' Mit di Boston, Henry Jenkins, la loro cultura è "partecipativa" e si fonda su "produzione e condivisione di creazioni digitali" e una "partnership informale" tra insegnanti e alunni che porta il bambino a sentirsi responsabile del progetto educativo. Il maestro non è più un trasmettitore di conoscenza ma un "facilitatore", che fa da filtro tra il caos della rete e il cervello del piccolo studente.
"Frequentano gli schermi interattivi fin dalla nascita", spiega Paolo Ferri docente di tecnologie didattiche e teoria e tecnica dei nuovi media all'Università Bicocca di Milano, "e considerano Internet "il principale strumento di reperimento, condivisione e gestione dell'informazione". È la prima generazione (che oggi ha tra gli o e i 12 anni) veramente hi-tech che pensa, apprende e conosce in maniera differente dai suoi fratelli maggiori.
"Se per noi imparare significava leggere-studiare-ripetere, per i bambini cresciuti con i videogames vuol dire innanzitutto risolvere i problemi in maniera attiva", spiega Ferri che studia e promuove da anni il "digital learning".
"Se per noi imparare significava leggere-studiare-ripetere, per i bambini cresciuti con i videogames vuol dire innanzitutto risolvere i problemi in maniera attiva", spiega Ferri che studia e promuove da anni il "digital learning".
I bambini cresciuti con consolle e cellulare sono "abituati a vedere la risoluzione di compiti cognitivi come un problema pragmatico", aggiunge. Lynn Clark direttrice dell' Estlow International Center for Journalism and New Media dell'Università di Denver ha condotto un progetto di ricerca su 300 famiglie americane per capire come se la cavano con i media digitali.
"Grazie ai videogiochi, il sapere dei bambini si nutre di simboli, sfide e modelli sempre diversi di narrazione", spiega Clark che aggiunge: "quando le modalità di apprendimento scolastico sono simili a quelle di un gioco ci sono maggiori chances che gli alunni apprendano volentieri e in fretta". "Se qualcosa può essere visto, ascoltato, suonato, perché dovrebbe essere raccontato a parole?", si chiede Paolo Ferri.
Nishant Shah, che a 26 anni dirige il Center for Internet and Society di Bangalore in India, lo spiega così via Skype: "La tecnologia dei nostri padri è quella televisiva: un modello analogico che stabilisce ruoli, responsabilità e struttura della produzione, diffusione e consumo di conoscenza. Con l'esplosione del p2p - l'idea di una rete dove non esiste gerarchia e tutto viene condiviso- i ruoli sono messi in discussione dallo studente, che si considera parte attiva nella produzione di sapere e vede i libri come una fonte tra le tante".
Se è vero che il "l'ha detto Internet" ha assunto tra i bambini l'autorevolezza di una sentenza della Cassazione, è innegabile che la rete sia la patria del vero-simile. "Internet sta ridisegnando i confini della verità - continua Shah - e questo pone grandi sfide per gli educatori del XXI secolo: come si fa a imparare utilizzando fonti che non hanno approvazione istituzionale? Come si può riconoscere un valido provider di conoscenza nel caos online?".
Anche il professore della Bicocca ammette che "la cut-and-paste culture e la presunzione di veridicità della Rete" tendono ad abbassare la percezione critica degli utenti: "Internet diventa per i bambini "la fonte" a prescindere dall'autorevolezza del sito e da chi scrive", dice.
Se passa il modello Wikipedia, crolla l'importanza dell'autore. O, come ha scritto l'antropologa Susan D. Blum sul New York Times, "se per lo studente non è fondamentale essere unico, va bene usare parole di altri. Dice cose a cui non crede? Allora è ok scrivere testi su argomenti sconosciuti con l'unico scopo di prendere un buon voto: conoscere è diventato un mezzo per ottenere consensi e socialità".
Per il momento le iniziative più interessanti di digital learning riguardano i fratelli più grandi. Dal prossimo anno in 2500 campus universitari americani arriverà un software per pc, iPad e telefonini (il costo va dai 30 ai 70 dollari e il maggiore produttore è la Turning Technologies) chiamato "clickers", che permette all'insegnante di verificare il livello di attenzione dello studente - immerso nella navigazione internet - chiedendo feedback sulla tastiera ogni 15 minuti. Il professore di Harvard Charles Nesson ha tenuto un corso virtuale su Second Life, mentre il progetto di educazione civica "YouMedia", sponsorizzato dall'amministrazione di Chicago, promuove l'apprendimento attraverso video-racconti pubblici di libri.
Nella Woodside High School, in California, gli studenti hanno borse di studio per comprare l'iPad, un centro multimediale da tre milioni di dollari e lezioni su come registrare la musica e usare Internet in maniera responsabile. Grazie ai computer economici del guru informatico Nicholas Negroponte, tutti i bambini uruguaiani delle elementari hanno un pc.
In Europa - che ha messo la competenza digitale al quarto posto (dopo prima lingua, lingua straniera e matematica e scienze) tra le competenze chiave per l'educazione degli stati membri dell'Unione - il paese più "nativi digitali oriented" è l'Inghilterra, dove la riforma del sistema scolastico voluta dal governo Blair ha ridotto drasticamente il numero degli studenti per classi, favorendo così la personalizzazione dell'insegnamento, e tagliato il numero delle materie. "Sono passati- sottolinea Paolo Ferri - da un modello disciplinare basato sui contenuti a quello per competenze che si regge su un principio: imparare ad imparare". Ferri ricorda che la lavagna interattiva è presente nel 100% delle classi primarie e secondarie inglesi mentre in Italia si punta ad averne una su dieci entro il 2011. Qui la strada è ancora tutta in salita.
In Europa - che ha messo la competenza digitale al quarto posto (dopo prima lingua, lingua straniera e matematica e scienze) tra le competenze chiave per l'educazione degli stati membri dell'Unione - il paese più "nativi digitali oriented" è l'Inghilterra, dove la riforma del sistema scolastico voluta dal governo Blair ha ridotto drasticamente il numero degli studenti per classi, favorendo così la personalizzazione dell'insegnamento, e tagliato il numero delle materie. "Sono passati- sottolinea Paolo Ferri - da un modello disciplinare basato sui contenuti a quello per competenze che si regge su un principio: imparare ad imparare". Ferri ricorda che la lavagna interattiva è presente nel 100% delle classi primarie e secondarie inglesi mentre in Italia si punta ad averne una su dieci entro il 2011. Qui la strada è ancora tutta in salita.
Il ministero dell'Istruzione porta avanti il progetto LIM, che riguarda l'introduzione di lavagne interattive nelle aule, e quello Cl@ssi 2.0 che punta a finanziare con 30mila euro 156 classi (in Italia ci sono circa 25mila scuole) delle scuole medie inferiori per lo sviluppo di progetti innovativi. "C'è una grande carenza di investimenti dall'alto - denuncia Ferri - arginata da qualche dirigente di buona volontà". Per il professore della Bicocca è a livello territoriale, grazie all'autonomia scolastica e alle capacità manageriali e creative di qualche preside, che si vedono i migliori esperimenti.
A Bollate, un comune di 37 mila abitanti alle porte di Milano, per imparare a usare l'iPad basta chiedere aiuto a un bambino. Nelle aule dell'Istituto di via Brianza - due scuole elementari e due medie inferiori - al posto di quadernetti e matite, da settembre gli alunni usano il tablet computer prodotto dalla Apple.
Qualche centinaia di chilometri più a Sud, a Reggio Emilia - la città dove tutti vorrebbero avere 3 anni per quel "Reggio Approach", lodato dal New York Times (parole d'ordine: arte, assemblee di classe e respiro globale), che ha fatto guadagnare al capoluogo emiliano il titolo di capitale mondiale degli asili nido - software, dispositivi elettronici e lavagne interattive hanno ormai sostituito seggioloni e orsacchiotti.
Bollate e Reggio non sono residui di una bizzarra avanguardia pedagogica, il cui simbolo cinematografico è ancora "Bianca" di Nanni Moretti, con le vicende della scuola "Marylin Monroe" dove al posto della foto del presidente della Repubblica c'e' Dino Zoff e i professori giocano alle slot machines e al flipper. Dimostrano piuttosto che ci sono, anche in Italia, presidi e maestri che hanno capito chi sono e come si educano i nativi digitali.
"Ma il risultato è quella di una cartina dell'innovazione a macchia di leopardo", dichiara Ferri, che tuttavia si dice ottimista. Da un lato perché "nel 2013 andrà in pensione la metà degli insegnanti italiani", dall'altro perché crede nel contagio positivo: "In 10 anni le scuole al passo con le trasformazioni sociali e tecnologiche, e per questo premiate con finanziamenti e alto numero di iscrizioni, avranno costretto le altre ad adeguarsi". Una speranza? No, un dovere. Perché "innovare innovare innovare", il famoso mantra di Hal Varian di Google News, è l'unica chance di sopravvivenza anche per la scuola italiana.
serena.danna@ilsole24ore.com
twitter@24people
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2 gennaio 2011
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