Nelle ultime settimane si succedono le dichiarazioni politiche sull'importanza e la centralità della scuola, nel momento stesso in cui il governo presenta provvedimenti e iniziative sulla “scuola del futuro”, ma anche si riduce il sostegno agli alunni con difficoltà, i confronti internazionali sulla qualità degli studi ci penalizzano, l'edilizia scolastica rimane sostanzialmente fuori norma, manca un progetto organico di cambiamento. Eppure è principalmente investendo sul sistema educativo che si costruiscono le condizioni per lo sviluppo futuro dell'Italia. Perché la crisi economica non è una malattia passeggera
La scuola al centro. Tutti (a parole) concordi
Ci avviciniamo alle elezioni e diventano sempre più numerose le affermazioni politiche secondo cui la scuola, il sistema educativo, il sistema formativo devono essere al centro delle politiche di sviluppo. Nei discorsi, appare sempre più presente l'affermazione per cui investire in formazione è fondamentale per l'uscita dalla crisi. Questo è indubbio: il dinamismo sociale ed economico obbliga i cittadini a possedere competenze ed attitudini che consentano di porsi nella condizione di poter governare il cambiamento. Possedere capacità di lettura critica dei fenomeni e di determinarli. Capacità di relazionarsi e di arricchirsi nella relazione, ponendosi sempre nella posizione duplice di chi ascolta e narra, di chi utilizza ma anche riutilizza e produce. Utilizzando appieno le tecnologie disponibili. In modo creativo. Queste competenze e queste attitudini non sono innate. Devono essere costruite, pazientemente, alle diverse età, ma l'efficacia maggiore si ottiene nel momento scolastico, che è allo stesso tempo di formazione iniziale delle persone e opportunità di disseminazione nelle famiglie. Ma come tutto questo è al momento interpretato a livello governativo e parlamentare?
Le innovazioni scomposte
Queste ultime settimane sono state segnate da avvenimenti ed eventi relativi ad alcune delle iniziative governative sul futuro della scuola: il capitolo sull'istruzione all'interno del decreto Crescita 2.0 (ex Digitalia) e alcuni progetti di innovazione lanciati dal MIUR presentati alla recente manifestazione ABCD. Il capitolo sull'istruzione nel decreto Crescita 2.0 è principalmente centrato sull'utilizzo deicontenuti didattici digitali, ponendo a carico della scuola quanto necessario perché gli studenti siano in grado di utilizzarli (e quindi favorendo la diffusione di dispositivi di vario genere da computer a tablet). Buona parte degli emendamenti parlamentari presentati al Senato si preoccupano “dell'impreparazione” degli editori, degli insegnanti e dei genitori al passaggio al digitale. Mostrando ancor di più come questo passaggio faccia parte di uno scadenzario (dove non si evidenzia come rendere possibile il rispetto delle scadenze) e non di un piano di cambiamento. E come l'impreparazione possa essere un aspetto permanente e il cambiamento un perpetuo “vorrei ma non posso. Non adesso.”
Si ha l'impressione che il focus principale per la costruzione della “scuola del futuro” sia ancora puntato soprattutto sulla tecnologia e sulle nuove strutture fisiche, con un approccio meccanicistico che rischia di far diventare inefficaci gli interventi posti in essere. Come se introdurre tecnologia e ridisegnare gli spazi possa essere sufficiente per il cambiamento. Tutto questo invece convive e stride con evidenza rispetto ad una situazione edilizia scolastica a dir poco disastrosa e in gran parte irregolare (per i noti problemi sulle norme della sicurezza, ancor più gravi in un territorio ad alto rischio sismico – vedi la recente indagine di Wired), ma soprattutto rispetto ad un insieme di interventi governativi che negli ultimi anni hanno ridotto le possibilità di sperimentazione e innovazione, oltre che reso difficile anche l'insegnamento quotidiano (pensiamo ad esempio al problema enorme del sostegno ridotto agli alunni con difficoltà). Non solo. La realtà è quella di una scuola per cui la spesa scolastica (4,7% del PIL contro una media Europea del 5,4%) e la retribuzione media degli insegnanti sono tra le più basse d'Europa. Tasselli di una situazione da cambiare radicalmente. Il risultato, inequivocabile, è la posizione sempre peggiore che occupano i nostri studenti nei diversi rilevamenti e benchmark internazionali, oltre che la difficoltà enorme dell'Italia di conquistare una posizione di preminenza nei settori più innovativi e che, per tipologia di industria, dovrebbero vederci protagonisti.
Un modello di riferimento?
Dopo la stagione che ha visto nascere il modello della scuola dell'autonomia, in Italia non abbiamo avuto iniziative di progettazione strategica dell'evoluzione del modello educativo e scolastico. A fronte di risorse sempre più ridotte e utilizzate in modo sempre meno efficace, abbiamo assistito ad una progressione sempre più spinta verso un approccio educativo via via più deresponsabilizzante e protettivo nei confronti degli studenti, programmi e testi didattici sempre più semplici e sempre meno approfonditi, insegnanti sempre meno incentivati alla professionalizzazione d'eccellenza. In più, a tutti i livelli siamo invasi da test, questionari a risposta multipla, anche in sostituzione dei colloqui orali, promuovendo la semplificazione degli slogan o della prontezza di risposta, dell'intuito, alla capacità di ragionamento critico e di approfondimento. Estremizzando, stiamo costruendo ottimi esecutori, pessimi imprenditori, ottimi soggetti televisivi, pessimi attori della società del XXI secolo. Se non intervengono cambiamenti radicali nella scuola e nell'università, questa pratica ci condannerà ad un futuro di povertà e di retroguardia. Non basta, per questo, incentivare le start-up, bisogna agire prima. E allora, a quale modello educativo guardare?
Anche negli USA si è discusso negli ultimi mesi del modello finlandese, come modello di successo alternativo a quello anglosassone basato sulla competitività e la valutazione estrema (degli studenti, dei docenti, delle scuole). Come scrivono diversi osservatori la forza del modello finlandese sta in alcune caratteristiche che sono identitarie di un approccio culturale:
- spinta all'autonomia e alla responsabilizzazione degli studenti;
- sviluppo delle competenze e della professionalizzazione dell'insegnante;
- integrazione delle abilità manuali, tecnologiche e teoriche;
- enfasi sulla costruzione delle competenze e non sulla competizione;
- preferenza per le piccole strutture scolastiche, agili, efficienti, più capaci di rispondere alle esigenze di studenti e docenti.
Non solo, l'attuale situazione finlandese è anche il frutto di un piano strategico graduale ma dalle tappe determinate che hanno permesso di rivoluzionare l'assetto preesistente. Non il risultato di interventi episodici e isolati.
Superare le resistenze
Torniamo alla riflessione iniziale, sulla necessità che il cambiamento parta dalla scuola e trovi lì il luogo di maggiore espressione della rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno. Una scuola vista come area di investimento per lo sviluppo del Paese, e quindi non solo in una prospettiva futura di costruzione della società del XXI secolo, ma, anche, in stretta connessione con quanto si vuole realizzare in ambito di sviluppo economico, di governo e partecipazione, di nuova socialità, di nuovo ambiente urbano e territoriale. Ben vengano i progetti sperimentali, le innovazioni basate sulla tecnologia, ma ancor di più abbiamo bisogno di un progetto di riforma che sia organico alle culture dell'innovazione e della partecipazione che vogliamo sviluppare. Un progetto che valorizzi le esperienze e le idee che fervono nei territori, che applichi un approccio connettivo sulle buone pratiche di didattica innovativa e utilizzo delle nuove tecnologie, di ridisegno degli spazi e di valorizzazione dell'interdisciplinarietà, ma allo stesso tempo in grado di ridare respiro alla scuola dell'autonomia invertendo la tendenza ad un falso efficientismo che aggrega strutture e ricostruisce la dittature delle burocrazie. Certo, bisogna superare le resistenze dei diversi interessi (economici, di potere) in gioco e anche all'interno degli attori coinvolti (insegnanti, genitori, amministrazione, …). Ma credo che sia questo il vero centro del cambiamento necessario. Forse sono maturi i tempi di un ripensamento profondo del sistema educativo. Supportato e favorito dalle nuove tecnologie digitali, ma non digitale.
Nello Iacono
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